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Msg: 14 del 07/10/2019 20:46
49 di 54
Quoting ciandlone67:
Per scive un pensiero così lungo ....a modo de vede ' mio ....te dopi ...l ' giusto.
Quoting Totav72:
Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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´Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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´Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
Per scive un pensiero così lungo ....a modo de vede ' mio ....te dopi ...l ' giusto.
Ho fatto copia incolla
C'è scritto all'inizio,è un articolo di tale Marco Bernardini.
Dopamose
Msg: 13 del 04/10/2019 20:07
1 di 1
Quoting Totav72:
Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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´Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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´Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
Per scive un pensiero così lungo ....a modo de vede ' mio ....te dopi ...l ' giusto.
Msg: 12 del 11/08/2019 18:18
82 di 83
Sono capitato a leggere questo argomento sul forum quasi per caso, in una caldissima domenica d'agosto.
Tanti anni son passati, ma, puntualmente, ogni volta mi accordo che, nel leggere e rileggere cose che oramai conosco, purtroppo, a memoria, mi vengono i lacrimoni agli occhi.
C'ero quel giorno alla partita, come sempre in curva con mio babbo, ma i ricordi sono vaghi e sfuggenti, come possono essere quelli di in undicenne al tempo
Però i ricordi personali di ognuno ora non hanno importanza, perché Renato è entrato in noi, nel nostro immaginario collettivo, anche per quelli che non l'hanno conosciuto, come un eroe, uno dei condottieri dell'epopea di quella squadra che aveva fatto innamorate l'Italia e l'Europa.
È per questo che puntualmente ogni volta, anche a 50 anni suonati, leggo e piango, scrivo e piango, perché gli eroi non hanno tempo, perché ormai sono dentro di noi, dentro chi ha questi colori nel cuore, senza bisogno di evocarli.....
basta solo il lieve ricordo
Tanti anni son passati, ma, puntualmente, ogni volta mi accordo che, nel leggere e rileggere cose che oramai conosco, purtroppo, a memoria, mi vengono i lacrimoni agli occhi.
C'ero quel giorno alla partita, come sempre in curva con mio babbo, ma i ricordi sono vaghi e sfuggenti, come possono essere quelli di in undicenne al tempo
Però i ricordi personali di ognuno ora non hanno importanza, perché Renato è entrato in noi, nel nostro immaginario collettivo, anche per quelli che non l'hanno conosciuto, come un eroe, uno dei condottieri dell'epopea di quella squadra che aveva fatto innamorate l'Italia e l'Europa.
È per questo che puntualmente ogni volta, anche a 50 anni suonati, leggo e piango, scrivo e piango, perché gli eroi non hanno tempo, perché ormai sono dentro di noi, dentro chi ha questi colori nel cuore, senza bisogno di evocarli.....
basta solo il lieve ricordo
Msg: 11 del 05/08/2019 20:16
2 di 2
Manco da questo forum da 22 anni. Non ho mai smesso di tifare i colori che mi hanno emozionato fin da bambino. Il calcio cambia, la fede è intoccabile. Sono ancora qui...
Voglio ricordare quel maledetto pomeriggio di ottobre in cui morì Renato Curi. Quello che vedemmo dal mio settore era Renato accasciarsi improvvisamente al suolo, nei pressi del centrocampo, con la palla e l'azione un pò distante. Siccome a pochi metri c'era Furino credemmo fosse sua la colpa, magari un pestone "alla Furino" appunto, ci furono quindi fischi in un primo momento. Pochi attimi dopo la concitazione, i calciatori con le mani nei capelli, il corpo di Renato immobile sulla barella.... Capimmo che qualcosa di grave era accaduto. Avevo 13 anni e solo diversi minuti dopo si seppe che Curi era morto d'infarto. Una tragedia immane in un giorno in cui piovve da mattina a sera, quelle giornate grigie d'autunno che noi perugini conosciamo bene. Ci fu pioggia anche al funerale, celebrato sotto la Nord con tanti ombrelli aperti e la piccola figlia di Renato in braccio alla madre.... Non lo dimenticherò mai.
Ritengo sia stata la prima volta che ho capito cosa significa la morte di una persona.
Lode a te Renato, SEMPRE!
Voglio ricordare quel maledetto pomeriggio di ottobre in cui morì Renato Curi. Quello che vedemmo dal mio settore era Renato accasciarsi improvvisamente al suolo, nei pressi del centrocampo, con la palla e l'azione un pò distante. Siccome a pochi metri c'era Furino credemmo fosse sua la colpa, magari un pestone "alla Furino" appunto, ci furono quindi fischi in un primo momento. Pochi attimi dopo la concitazione, i calciatori con le mani nei capelli, il corpo di Renato immobile sulla barella.... Capimmo che qualcosa di grave era accaduto. Avevo 13 anni e solo diversi minuti dopo si seppe che Curi era morto d'infarto. Una tragedia immane in un giorno in cui piovve da mattina a sera, quelle giornate grigie d'autunno che noi perugini conosciamo bene. Ci fu pioggia anche al funerale, celebrato sotto la Nord con tanti ombrelli aperti e la piccola figlia di Renato in braccio alla madre.... Non lo dimenticherò mai.
Ritengo sia stata la prima volta che ho capito cosa significa la morte di una persona.
Lode a te Renato, SEMPRE!
Msg: 10 del 31/10/2017 08:14
21 di 54
Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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"Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
30/10/2017, 16:30
di Marco Bernardini
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"Occhio al piccoletto che ci ha già fatto male una volta. Molto male”. Poche parole, ma assai chiare, quelle usate da Giovanni Trapattoni come raccomandazione ai suoi ragazzi che si apprestavano ad affrontare il Perugia nello stadio il quale ancora si chiamava Pian di Massiano. In effetti il “piccoletto” in questione, nome e cognome Renato Curi con un gol che pure non rientrava nei suoi compiti specifici di calciatore aveva castigato la Juventus sul finire di due campionati precedenti consentendo così al Torino guidato da Gigi Radice di soffiare lo scudetto ai bianconeri sul filo di lana. “Ci penso io mister” rispose Beppe Furino massaggiandosi i piedi di capitano con l’elmetto. Si andava a cominciare quella che da classica rappresentazione della domenica si sarebbe trasformata in una tragedia. Quarant’anni fa.
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.
Marco Bernardini
Msg: 9 del 31/10/2017 07:36
5 di 5
Riporto la testimonianza di Marino Bartoletti, 29/10/2017
I giornalisti della mia generazione hanno molto amato il Perugia della fine degli anni ’70: e ovviamente Perugia. E non solo - almeno per quanto mi riguarda - perché mi stavo avvicinando al bellissimo traguardo dei trent’anni, ma perché andare a vedere quella squadra rappresentava una boccata d’aria buona sotto tutti i punti di vista.
Straordinario, per intelligenza imprenditoriale e per tratto umano, il suo presidente Franco D’Attoma; di una modernità assoluta il suo allenatore Ilario Castagner che in un paio d’anni aveva portato dalla B ai vertici della Serie A una squadra praticamente senza stelle (a parte forse Novellino e Bagni), ma assolutamente piena di luce calcistica. Eppure…
Eppure fu proprio a Perugia, nello stadio che allora si chiamava convenzionalmente “Pian di Massiano” e che avrebbe cambiato nome proprio per quello che accadde quel giorno, che esattamente il 30 ottobre di quarant’anni fa, il mondo della nostra innocenza nel raccontare calcio ci rovinò addosso.
Era una giornata molto fredda: di pioggia non sferzante, ma gelida. Sul campo fradicio, due delle quattro squadre prime in classifica a pari punti: il Perugia, appunto, e la fortissima Juventus di Giovanni Trapattoni che di lì a pochi mesi avrebbe alimentato per otto-nove undicesimi la formazione titolare della Nazionale di Bearzot in Argentina.
Da una parte, dunque, l’invincibile armata. Dall’altra bucanieri coraggiosi i cui nomi potrebbero dir poco ai ragazzi di oggi: Grassi, Nappi, Dall’Oro, Matteoni….E poi Frosio, Zecchini, Amenta, Speggiorin… C’era anche Walter Sabatini. E c’era Curi… Renato Curi. Aveva 24 anni da un mese il trottolino di Ascoli cresciuto a Pescara: e la maglia numero 8. E allora chi aveva la maglia numero 8 doveva correre, correre tanto, correre per tutti. E far pulsare il cuore della squadra. Ma anche il suo.
E Renato aveva corso per l’intero primo tempo: aveva anche piedi buoni, era stato forse il migliore in campo. Era alto 1 metro e 65: l’altra mezz’ala, Franco Vannini, 1 metro e 90. Da soli, così bizzarramente assortiti, avevano tenuto in scacco il centrocampo dei Campioni d’Italia (quei Campioni a cui un suo gol, un anno e mezzo prima aveva sfilato lo scudetto a favore del Torino). Al quinto del secondo tempo Curi si accasciò senza apparente motivo. L’arbitro Menegalli fermò il gioco vedendo l’agitarsi angosciato accanto a lui di alcuni compagni, di Benetti, di Bettega, di Scirea. In tribuna arrivò l’onda dell’incredulità e della disperazione. Un’onda ancora più gelida di quella giornata.
Il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, la barella, il caos… Lo sgomento. Renato arrivò morto al Policlinico. La partita si trascinò fino allo 0 a 0 finale in un angosciante, frastornato play back
Il giorno dopo scoppiarono, inevitabili, le polemiche. Noi giornalisti dovemmo cambiare cappello e farci medici e avvocati; rintronati da voci e teorie. Personalmente presi anche una querela che si risolse nel nulla, ma di cui non vado certo fiero. Ricordo ancora un termine appreso allora: ”pancardite reumatica”. Ci fu chi disse che Renato sapeva di essere a rischio e che il suo non fosse, come diceva scherzando, soltanto “un cuore un po’ matto”. Ci fu invece sostenne che fosse perfettamente idoneo. Inutile e irrispettoso, almeno oggi, rivangare quelle dispute sterilmente tardive
In tribuna, quando si consumò quella tragedia, c’era sua moglie Clelia. La piccolissima Sabrina era rimasta a casa. Clelia non sapeva di avere in grembo un bimbo. Che sarebbe nato otto mesi dopo. E che si sarebbe chiamato come il suo papà. E poi come lo stadio di Perugia.
Quel bimbo lo vidi per la prima volta, durante una puntata di “Quelli che il calcio”, poco più di vent’anni dopo. Era venuto anonimamente tra il pubblico. “Sono Renato Curi” mi disse. Lo abbracciai, piangendo le lacrime che non avevo pianto allora.
I giornalisti della mia generazione hanno molto amato il Perugia della fine degli anni ’70: e ovviamente Perugia. E non solo - almeno per quanto mi riguarda - perché mi stavo avvicinando al bellissimo traguardo dei trent’anni, ma perché andare a vedere quella squadra rappresentava una boccata d’aria buona sotto tutti i punti di vista.
Straordinario, per intelligenza imprenditoriale e per tratto umano, il suo presidente Franco D’Attoma; di una modernità assoluta il suo allenatore Ilario Castagner che in un paio d’anni aveva portato dalla B ai vertici della Serie A una squadra praticamente senza stelle (a parte forse Novellino e Bagni), ma assolutamente piena di luce calcistica. Eppure…
Eppure fu proprio a Perugia, nello stadio che allora si chiamava convenzionalmente “Pian di Massiano” e che avrebbe cambiato nome proprio per quello che accadde quel giorno, che esattamente il 30 ottobre di quarant’anni fa, il mondo della nostra innocenza nel raccontare calcio ci rovinò addosso.
Era una giornata molto fredda: di pioggia non sferzante, ma gelida. Sul campo fradicio, due delle quattro squadre prime in classifica a pari punti: il Perugia, appunto, e la fortissima Juventus di Giovanni Trapattoni che di lì a pochi mesi avrebbe alimentato per otto-nove undicesimi la formazione titolare della Nazionale di Bearzot in Argentina.
Da una parte, dunque, l’invincibile armata. Dall’altra bucanieri coraggiosi i cui nomi potrebbero dir poco ai ragazzi di oggi: Grassi, Nappi, Dall’Oro, Matteoni….E poi Frosio, Zecchini, Amenta, Speggiorin… C’era anche Walter Sabatini. E c’era Curi… Renato Curi. Aveva 24 anni da un mese il trottolino di Ascoli cresciuto a Pescara: e la maglia numero 8. E allora chi aveva la maglia numero 8 doveva correre, correre tanto, correre per tutti. E far pulsare il cuore della squadra. Ma anche il suo.
E Renato aveva corso per l’intero primo tempo: aveva anche piedi buoni, era stato forse il migliore in campo. Era alto 1 metro e 65: l’altra mezz’ala, Franco Vannini, 1 metro e 90. Da soli, così bizzarramente assortiti, avevano tenuto in scacco il centrocampo dei Campioni d’Italia (quei Campioni a cui un suo gol, un anno e mezzo prima aveva sfilato lo scudetto a favore del Torino). Al quinto del secondo tempo Curi si accasciò senza apparente motivo. L’arbitro Menegalli fermò il gioco vedendo l’agitarsi angosciato accanto a lui di alcuni compagni, di Benetti, di Bettega, di Scirea. In tribuna arrivò l’onda dell’incredulità e della disperazione. Un’onda ancora più gelida di quella giornata.
Il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, la barella, il caos… Lo sgomento. Renato arrivò morto al Policlinico. La partita si trascinò fino allo 0 a 0 finale in un angosciante, frastornato play back
Il giorno dopo scoppiarono, inevitabili, le polemiche. Noi giornalisti dovemmo cambiare cappello e farci medici e avvocati; rintronati da voci e teorie. Personalmente presi anche una querela che si risolse nel nulla, ma di cui non vado certo fiero. Ricordo ancora un termine appreso allora: ”pancardite reumatica”. Ci fu chi disse che Renato sapeva di essere a rischio e che il suo non fosse, come diceva scherzando, soltanto “un cuore un po’ matto”. Ci fu invece sostenne che fosse perfettamente idoneo. Inutile e irrispettoso, almeno oggi, rivangare quelle dispute sterilmente tardive
In tribuna, quando si consumò quella tragedia, c’era sua moglie Clelia. La piccolissima Sabrina era rimasta a casa. Clelia non sapeva di avere in grembo un bimbo. Che sarebbe nato otto mesi dopo. E che si sarebbe chiamato come il suo papà. E poi come lo stadio di Perugia.
Quel bimbo lo vidi per la prima volta, durante una puntata di “Quelli che il calcio”, poco più di vent’anni dopo. Era venuto anonimamente tra il pubblico. “Sono Renato Curi” mi disse. Lo abbracciai, piangendo le lacrime che non avevo pianto allora.
Msg: 8 del 30/10/2017 21:28
6 di 7
Quel giorno c'era mio babbo juventino (da piccolo sono stato in bilico per tifarla anche io) in gradinata io sarei nato quasi un anno dopo. Mi sono fatto raccontare quel giorno centinaia di volte.non torno più allo stadio se non raramente e ogni volta gli piaceva sempre meno. quel fatto l'aveva colpito dentro e preferiva la radio e 90 minuto. Giusto per vedere i goal. Ora non c'è più nemmeno lui e spero sia riuscito ad incontrare Renato perché avevano lo stesso carattere secondo me. Umiltà e sacrificio questa era la vita per loro. Ciao Renato ciao Papà
Msg: 7 del 30/10/2017 21:16
8 di 10
Io ero in parterre tribuna con mio Padre..praticamente mi è crollato a pochi metri.... ricordo un signore che inveiva contro Gentile o Furino non ricordo.....convinto che l'avesse colpito a tradimento.
Fuori dallo stadio clima surreale, in una tragedia simile ricordo una cosa bellissima: una grande immensa famiglia che partecipava al dolore mentre la radio diffondeva la tragica notizia.
Ricordo che il Lunedì la maestra a scuola ci fece fare un tema ricordando l'accaduto.
Al funerale ho avuto l'onore di essere in campo, all'epoca apparteneva ad una società sportiva ed inoltre il prete che ha officiato della messa era di madonna alta, la mia parrocchia.
Avevo 10 anni, impalato sul campo fradicio senza ombrello tenevo una delle tante corone.
Fuori dallo stadio clima surreale, in una tragedia simile ricordo una cosa bellissima: una grande immensa famiglia che partecipava al dolore mentre la radio diffondeva la tragica notizia.
Ricordo che il Lunedì la maestra a scuola ci fece fare un tema ricordando l'accaduto.
Al funerale ho avuto l'onore di essere in campo, all'epoca apparteneva ad una società sportiva ed inoltre il prete che ha officiato della messa era di madonna alta, la mia parrocchia.
Avevo 10 anni, impalato sul campo fradicio senza ombrello tenevo una delle tante corone.
Msg: 6 del 30/10/2017 21:06
4 di 5
Avevo 11 anni e i miei mi mandarono per la prima volta alla partita da solo (altri tempi!). Ricordo la lunga camminata per arrivare al Curi con i volumetti di Alan Ford sotto il braccio (avrei dovuto aspettare 3-4 ore prima dell'inizo della partita, mica non c'erano i cellulari per passare il tempo), l'emozione dell'ingresso in curva e quel terribile temporale. Poi Curi cade: nella mia mente di bambino pensavo ad un fallo di gioco (anche perchè seguire la partita con quella pioggia e senza ombrello nè impermeabile non era facile) e non mi rendo conto di nulla. Torno a casa fradicio di acqua con il fango fino alle ginocchia (a quei tempi la zona Cortonese e Pian i Massiano era ancora metà palude), gli Alan Ford dispersi in una mega pozza di acqua e i miei preoccupatissimi: poi apprendo da mia sorella la terribile notizia e stento a crederci. Ma lo voglio ricordare con lo stupendo gol che ci fece sotto la curva l'anno precedente, all'ultima di campionato: in quell'occasione ero accompagnato da mio cugino juventino...
Msg: 5 del 30/10/2017 20:53
Post sul forum:
214 di 221
Io non c ero. Non posso avere ricordi di Te e di quella maledetta giornata. Io non c ero ma ho iniziato a conoscerti che ero piccolo. Per me eri lo stadio. Per me il Renato Curi era lo stadio del Perugia, dove giocava il Perugia che io volevo vedere. Era casa tua, iniziava ad essere anche casa mia. Per me sei stato uno dei primi nomi familiari della mia vita e quando sentivo il tuo nome pronunciato in tv o alla radio " al Renato Curi di Perugia " mi prendeva un senso di felicità e orgoglio. Sensazioni irrazionali da bambini.
Adesso, a 42 anni, posso dire di aver condiviso la tua casa per 36 anni. Cosa significa il Renato Curi? Significa semplicemente vita, significano momenti indimenticabili nella sconfitta e nella vittoria, significa aver conosciuto persone che sono diventati fratelli, significa non vedere più il papà che ti ha portato da piccolo, significa aver perso amici che hanno condiviso con te questa passione. Significa tutto. Renato Curi è vita.
Chissà cosa si sceglierebbe come destino, Tu non avresti scelto questo, non lo avrebbe scelto nessuno. Ma forse, se deve esserci una logica, un filo conduttore, la tua tragedia non è stata vana. E se a 40 anni esatti, tanti come me e molto più giovani ti portano nel cuore un motivo c è.
Perché tu non sei un ricordo, tu, per chi condivide questa passione, sei tutto. Sei Vita.
Ciao Renato.
Adesso, a 42 anni, posso dire di aver condiviso la tua casa per 36 anni. Cosa significa il Renato Curi? Significa semplicemente vita, significano momenti indimenticabili nella sconfitta e nella vittoria, significa aver conosciuto persone che sono diventati fratelli, significa non vedere più il papà che ti ha portato da piccolo, significa aver perso amici che hanno condiviso con te questa passione. Significa tutto. Renato Curi è vita.
Chissà cosa si sceglierebbe come destino, Tu non avresti scelto questo, non lo avrebbe scelto nessuno. Ma forse, se deve esserci una logica, un filo conduttore, la tua tragedia non è stata vana. E se a 40 anni esatti, tanti come me e molto più giovani ti portano nel cuore un motivo c è.
Perché tu non sei un ricordo, tu, per chi condivide questa passione, sei tutto. Sei Vita.
Ciao Renato.
Msg: 4 del 30/10/2017 19:14
3 di 12
Come al solito ero in curva insieme ai miei genitori, ero un dodicenne che sognava con il Grifo tra le prime in classifica.Siccome quel giorno pioveva a più non posso, alcuni addetti fecero trasferire molte persone della Nord in tribuna durante l'intervallo. E nonostante avvenne sotto i nostri occhi, molte persone non si resero conto della gravita' del fatto. In molti pensammo ad un grave infortunio e addirittura si sprecarono le imprecazioni verso i giocatori bianconeri. Solo quando tornai a casa, una vicina mi domando': " ma chi è quel giocatore che è morto oggi? " entrai in una confusione mentale che durò più giorni, compreso il giorno della visita alla Camera mortuaria allestita negli spogliatoi dello stadio. Per me Renato fu il primo incontro con la morte....un immagine che mi porterò dentro per sempre, come l'amore per questa maglia! Lode a te Renato Curi!
Msg: 3 del 30/10/2017 18:17
7 di 10
In quegli anni spesso ero in campo a fare il raccattapalle, Vannini abitava di fronte a casa mia, verso mezzo giorno suonava il clacson della sua mini traveller e gentilmente mi accompagnava allo stadio facendomi accomodare nel rettangolo verde, con tale raccomandazione mi collocavo sotto la curva nord (alla quale comunque mio padre mi sottoscriveva regolarmente l'abbonamento ad inizio stagione).
Anche quel giorno ero lì, ma ad un certo punto mi sono disteso sotto i cartelloni pubblicitari perchè inzuppato e infreddolito non sopportavo più la pioggia.
Uscivo fuori solo per recuperare velocemente il pallone, dovevo fare il mio dovere, anche perchè noi volevamo vincerla quella partita, Renato Curi nel tunnel si sentiva carico ed ottimista.
Quando la barella è passata vicino a me, Mario Scarpa teneva la coperta sul corpo di Renato Curi e piangeva....piangeva come un bambino .....
Non commettiamo l'errore di ritirare la maglia n. 8, lasiamola correre nel campo, magari stampiamo il nome nel colletto e soprattutto,.... facciamola indossare a chi veramente lo merita...
Lode a Te, Renato Curi
Anche quel giorno ero lì, ma ad un certo punto mi sono disteso sotto i cartelloni pubblicitari perchè inzuppato e infreddolito non sopportavo più la pioggia.
Uscivo fuori solo per recuperare velocemente il pallone, dovevo fare il mio dovere, anche perchè noi volevamo vincerla quella partita, Renato Curi nel tunnel si sentiva carico ed ottimista.
Quando la barella è passata vicino a me, Mario Scarpa teneva la coperta sul corpo di Renato Curi e piangeva....piangeva come un bambino .....
Non commettiamo l'errore di ritirare la maglia n. 8, lasiamola correre nel campo, magari stampiamo il nome nel colletto e soprattutto,.... facciamola indossare a chi veramente lo merita...
Lode a Te, Renato Curi
Msg: 2 del 30/10/2017 17:55
71 di 108
io non posso avere ricordi di quel giorno essendo nato dicembre dell'anno successivo ma i miei genitori si sono conosciuti in curva quel giorno.
Msg: 1 del 30/10/2017 16:47
3 di 5
Sono passati 40 anni da quel maledetto giorno. Molti di voi non erano neanche nati ma altri, più o meno ragazzini, quel giorno si trovavano al Curi ed hanno vissuto con i loro occhi quella tragedia, elaborandola in maniera diversa, a seconda dell'età e del contesto in cui si trovavano. Sarebbe bello se ognuno di noi, in questa discussione, riportasse la testimonianza di quel freddo e piovoso pomeriggio, con le sue parole e i suoi ricordi, perché la memoria di Curi rimanga sempre forte e presente e per far capire ai più giovani come si viveva il calcio 40 anni fa. E chi non c'era può trascrivere come gli è stato raccontato quel giorno, dai suoi amici o genitori. In un tempo dove va di moda, da parte di presidenti facoltosi, intitolare nuovi stadi a parenti, in una sorta di autocelebrazione, siamo fieri di avere il nostro stadio intitolato a Renato Curi, in assoluto il più grande giocatore che ha indossato la maglia del grifo e che tutti sentiamo uno di noi. Sarebbe bello poi stampare queste testimonianze ed esporle al museo del Perugia perché questo, seppur drammatico, rimane un pezzo di storia indelebile della nostra città, che tutta intera pianse per quel giovane e grande calciatore con il n.8 sulla maglia biancorossa.
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